La monaca di Monza di Mario Mazzucchelli


Lo studio, pubblicato da Dall’Oglio nel 1963, è opera, a mio modo di vedere, di notevole interesse. Un sunto, documentato, ragionato e ben esposto della causa che infiammò Milano agli inizi del XVII secolo.

La storia di suor Virginia Maria, divenuta immortale grazie alla Gertrude di manzoniana memoria, è terribile. Emergono, tra le pagine del processo, una serie interminabile di crimini: stupri, raggiri e omicidi commessi nell’assoluta certezza dell’impunibilità sia per la collocazione sociale dei protagonisti della vicenda e sia per la pericolosità dell’Egidio (al secolo Gian Paolo Osio).

L’intenzione ora è di rileggere lo scritto manzoniano, ma dai ricordi, non mi pare che il Lisander, sia riuscito a trasmettere l’esatta idea di quanto accadde nel monastero di Santa Margherita di Monza. Scrisse, pur nella drammaticità degli eventi, una versione quasi edulcorata.

Unica pecca, rimangono le considerazioni di carattere psicologico e la ricostruzione della personalità della monaca che risente inevitabilmente dell’età del libro.

Prime pagine


Il libro è un fortuito ritrovamento tra gli scaffali della biblioteca ove opero attualmente. Giuseppe Dezza è un protagonista indiscusso del risorgimento della mia terra di provenienza.

Sono questi gli ingredienti di questa prima impressione di Memorie autobiografiche e carteggio, 1848-1875, edito da Renon nel 1963, con una prefazione di Franco Catalano, perfetta per i miei gusti: giusta lunghezza, scrittura piacevole e documentazione essenziale.

Il volume è oggi pressoché introvabile e anche la sua presenza sugli scaffali delle biblioteche italiane è assai esigua. Un motivo in più per godersi la lettura.

Nell’immagine, Giuseppe Dezza, Melegnano, 23 febbraio 1830 – Milano, 14 maggio 1898

Parole belle: aggranchiate


Il passo lo traggo da I promessi sposi di Alessandro Manzoni:

Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate.

Capitolo I

Il vocabolario è il Treccani:

aggranchiare v. intr. [der. di granchio] (io aggrànchio, ecc.; aus. essere). – Rattrappirsi, intirizzirsi per il freddo: un vento gelato che fa a.; più spesso con la part. pron.: ad aspettare lì sulla piazzas’era tutto aggranchiato. ◆ Part. pass. aggranchiato, anche come agg.: mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altrache parevano aggranchiate (Manzoni).

Sprazzi d’autunno (della natura e dell’uomo)


Il passo non è celebre come il bel “addio monti”. Penso meriti, tuttavia, di essere letto e apprezzato.

Padre Cristoforo (è suo il ritratto nell’immagine) è diretto alla casa della sfortunata Lucia e questo è ciò che la natura gli offre lungo il cammino, in quel dì di novembre.

Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza.

I Promessi sposi, Capitolo IV.

Questo sopra riportato è lo sfondo del dipinto, quasi bucolico, cui sopra il Manzoni dipinge meste figure:

La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere.

I Promessi sposi, Capitolo IV.

Non solo Gertrude…


Nel corso del XVI secolo, gli scandali legati ai monasteri femminili paiono essere pratica diffusa. Questo episodio lo traggo da “Alessandro, il Magno dei conti Crivelli di Dorno e di Lomello” di Gemma Torriani e di chi scrive, edito nel 2020 da Gemini Grafica Editrice.

Oltremodo “vivace” fu la vita nei monasteri, soprattutto in quelli femminili. Essi furono soggetti ad alcuni scandali, il primo dei quali, quello occorso nel 1463, è universalmente noto in Lomello.

Ce lo narra così Mario Zucchi: «Un fatto doloroso e degno di nota per la persona, per le circostanze e per i tempi, avveniva nel 1463, nel monastero di Santa Maria in Galilea a Lomello. Un giorno, fra lo sgomento e il raccapriccio delle povere monache, rinvenivasi cadavere entro la peschiera del monastero la madre abbadessa. Difficile è stabilire se fosse disgrazia, o delitto, o suicidio, come opinerebbe il Motta, contrariamente alla testimonianza di alcuni documenti contemporanei; il certo si è che un “frate Nigro”, fu fatto arrestare dal podestà di Lomello, che con gran lusso di particolari licenziosi, scrivevane immediatamente al duca di Milano, Francesco Sforza. Questi a sua volta, l’11 settembre 1463, comunicava la nuova al vescovo Corrado di Terracina, vicario del cardinale Piccolomini di Pavia, invocando l’intervento dell’autorità ecclesiastica affinchè disponesse, sotto buona scorta di gendarmi, il trasporto del reo dalle carceri di Lomello, e provvedesse a farne giustizia».

«R.mo IN CHRISTO PATRI DOMINO CONRADO EPISCOPO TERRACINENSIS [Corrado Marcellini, vescovo di Terracina] R.mi D. CARDINALIS PAPIE [Giacomo Ammannati Piccolomini] L. T. (locumtenentis). Siamo auisati per lettere del potestà nostro de Lomello, lui hauere nouamente destenuto uno chiamato fra Nigro trouato in el lecto de una abbadessa, in uno monastero de quella terra de Lomello, et die sequenti hauerla trouata quella Abbadessa negata in una pischera dentro dal monastero. Et perchè questo è uno caso, quale non ne pare da negligere, a noi pareria che la R.tia vostra mandasse a tore quello frate Nigro cum bona compagnia et tennerlo sotto bona guardia et fare sopra de questo quella prouisione vi parirà opportuna. Et sel ditto potestà per hauere destenuto il ditto frate fosse caduto in excomunicatione alcuna lo vogliate absoluere. Dat. Mediolani xj semptembris Mcccclxiij [Milano, 11 settembre 1463]».

«Che cosa sia avvenuto di costui e se egli fosse realmente colpevole della tresca imputatagli, non mi venne fatto di sapere. Il duca terminava la sua lettera pregando di assolvere il podestà da ogni censura ecclesiastica qualora vi fosse incorso per l’arresto di quel religioso, e in un post scriptum raccomandava che a nuova abbadessa del monastero si eleggesse “madonna Elena di Sannazzaro”». Così conclude Zucchi Mario in Lomello (476-1796) con un cenno sul periodo delle origini, 1904.

Per l’apparato di note storiche e di riferimenti bibliografici rimando alle opere sopra citate.

L’ira dell’Infante


Don Carlos, l’infante di Filippo II è decisamente irato.

Prendete quindici uomini e volate al vicolo di Guadarrama, alla casa del doppio balcone. Gettate a terra la porta e uccidete tutti! Tutti! E date fuoco alla casa. Un rogo! Un rogo! Voglio vedere le fiamme di qua. Sangue! Fiamme!

Da “Yo, el Rey. Filippo II” di Bruno Cicognani

Cosa è accaduto di così grave da minacciare tale strage? Ci dice Bossolus (Filosofo francese al seguito dell’Infante):

Vi hanno rovesciato un orcio d’acqua addosso. Che è un orcio al confronto del diluvio universale?

Da “Yo, el Rey. Filippo II” di Bruno Cicognani

L’infamia dell’acqua venga spenta col fuoco.

Il micidiale diamaron


Il Diamaron in questione è in realtà un innocuo sciroppo per i gargarismi. Nella vicenda della Monaca di Monza, tuttavia, è micidiale, perché usato come alibi per uccidere lo scomodo speziale che troppo sapeva degli intrighi del convento di Santa Margherita. Ma cosa è il Diamaron?

E. Come farete questo diamaron, e che sorti di more intendete? R. Io intendo per more celsi quelle more grosse negre, longhe, che ordinariamente si mangiano, & in Roma si chiamano more celsi, e non intendo quei mori celsi bianchi, ne neri, la foglia de quali si dà alli vermi di seta, per more rubi intendo quelle more salvatiche che fanno per le fratte, e ripe de campi, & altri luoghi inculti, e non intendo quelle more, che fanno per li campi e serpono per terra, e sono piccole di sei, sette granelli; dunque di quelle ne cavarò il sugo quando fono negre, ma che non sijno troppo mature, e per cavarne il sugo le farò stare trè ó quattro giorni dentro un vaso di terra, ó di legno sino che cominciano a fermentare, dipoi le spremerò, & il sugo pollo in un fiasco col suo oglio sopra, lo metterò a purificare al Sole, e per far il diamoron, pigliarò i sudetti sughi ben chiari, e purgati col miele e mosto cotto, e li farò bollire assieme, e cuocerli in varo di terra ó di rame stagnato ó di ottone, e non li farò gran cottura, perche presto si astringe, e serve per gargarismi.

Prattica de’speziali dove per modo di dialogo si insegna a conoscere le droghe, … con un trattato delle confezioni nostrali di casa, … di Fr. Domenico Auda capo speziale dell’Archiospetale di S. Spirito di Roma, 1736

E per un’epoca più prossima alle nostre vicende…

A far il Diamoron semplice

Piglia sugo di More domesticbe di ciascheduna lib. una e mezza, Mele & mosto cotto di ciascheduna lib. una, fa cuocere ogni cosa insieme a spessitudine di Mele, & fanne Loch.

A far il Diamoron composto.

Il Diamoron si fa quando al semplice s’aggionge qual che cosa, che con efficacia ò discaccia ò concuoca ò digerisca, come sarà giudicato dal Medico.

Si pigliarà le More ben mature, poi si frangerà bene con le mani dentro di un vaso vitriaio & si lasciarà fare in cantina per spatio di un giorno naturale accioche le dette More perdino la loro viscosità & dopo che saranno colate col detto succo se ne farà Loch nel modo decto di sopra.

Antidotario romano latino, e volgare. Tradotto da Ippolito Ceccarelli. Li ragionamenti, e le aggiunte dell’elettione de’semplici, e pratica delle compositioni. Con le annotationi del sig. Pietro Castelli romano. E trattati della teriaca romana, e della teriaca egittia, 1639

Sul cosa sia il gargarismo, ci affidiamo alla prima edizione del dizionario dell’Accademia della Crusca: Risciacquarsi la canna della gola con gargarismo: detto dal suono, che si fa, ritenendolo, ch’e’ non passi allo stomaco.

In regalo la trama per un giallo


Oggi sono in vena di regali, e così lascio alla fantasia di ognuno di voi questa traccia per scrivere il vostro romanzo giallo.

Anno del Signore 16**

Durante un furioso temporale, una conversa scompare dal monastero di Santa M*** a M***. Nel volgere di pochi giorni, il fabbro Ferrari muore pugnalato per mano di un sicario, lo speziale Rainerio sfugge miracolosamente a un colpo di archibugio e una testa mozzata viene ritrovata in un pozzo. Sono connessi tra loro questi delitti? Allarmato dal susseguirsi di criminosi eventi, Niguarda, il Capitano della Terra, indaga. Ben presto, però, comprende che l’omertà dei borghigiani nasconde un terribile segreto. Dovrà muoversi con accortezza per non suscitare i sospetti di una monaca feudataria e l’ira di un prepotente del luogo assai temuto. Il mistero è da risolvere con celerità, perché in città sta per giungere il cardinale Borromeo…

Potrei anche suggerire il titolo di questo romanzo veramente noir: “Il monastero del vizio”. Trattasi, però, di vera storia… qualcuno vuol provare a indovinare di chi sto scrivendo?

Come nasce una diceria


Nel ‘600 la nascita di una diceria era in tutto e per tutto simile a ciò che accadrebbe oggi. Saranno cambiati i tempi, gli usi e i costumi, ma il principio e la fine sono i medesimi.

Il Rainerio… parla in segreto con la sua moglie Elisabetta, ma poi non sa tenere la lingua a freno e ne parla ad Apollonia, moglie di Giuseppe Passeno, parente dell’Osio…. il Ranerio… continua a lasciarsi sfuggire allusioni. Egli è inoltre in rapporti quasi giornalieri con il fattore del convento, Domenico Ferrari, la cui moglie Elisabetta Sarra è intima amica della signora Lucrezia Homati, madre di suor Benedetta: ora questa Lucrezia, certo informata dalla figlia, non si fa scrupolo di svelare che la piccola Alma Francesca è proprio figlia di Suor Virginia e dell’Osio….

La monaca di Monza, Mazzucchelli, 1963

Ciò che cade nell’orecchio, insomma, precipita veloce sulla punta della lingua… e poi, vedremo prossimamente, sono coltellate e archibugiate.

Tangonarie da villana


Lo spunto proviene sempre da La monaca di Monza di Mazzucchelli, pubblicato nel 1963. In una delle lettere, studiate per la ricostruzione della scabrosa vicenda, si cita una parola misteriosa:

So che detta Caterina serviva a Suor Virginia Maria e che alle volte le dava dei disgusti mentre faceva quelle tangonarie da villana.

La parola nei vocabolari di lingua italiana parrebbe non esistere, e il curatore dell’opera, che già in altre occasioni ha proposto una sorta di traduzione di altri termini dialettali, qui non si esprime.

Tento allora di sfogliare un dizionario di Milanese-Italiano. Vi trovo un’espressione di una certa somiglianza:

Tanghen: Tanghero, Zotico, Rozzo, Ruvido.
Tånghen: Sussi, Mattoncello. Sorta di giuoco ed anche lo strumento da ciò. Giugà al tanghen. Giocare al sussi o al mattoncello. Giuoco che si fa per lo più dai ragazzi ponendo in terra per ritto una pietra od anche assai comunemente una pallottola cui danno il nome di sussi sulla quale mettono il danaro convenuto e poscia allontanatisi a una data distanza ordinatamente tirano una lastra per uno in quel sussi e chi ci coglie e ne fa cadere il denaro guadagna quel denaro caduto ch’è più vicino alla sụa lastra e quello ch’è più vicino al sussi vi si ripone sopra e cosi fin che sia finito.

Vocabolario Milanese-italiano di Francesco Cherubini vol. IV

Tralasciando la descrizione del gioco, troppo poco ci rimane per giungere a una spiegazione soddisfacente, tuttavia potremmo definire tangonaria un gesto o un’opera rozza, grezza oppure spregevole.

Caro lettore, se hai una lettura diversa da propormi son pronto a cambiare opinione.

O maladetto, o abominoso ordigno


Particolare del mese di Luglio, sala dello Zodiaco, Castello Crivelli, Lomello, 1560 ca.

Gian Paolo Osio, l’Egidio del Manzoni, non frequentava certo buone compagnie:

… capi dei quali sono Johanne Paolo Casate. Francesco Ghiringhello, Fabio Trezzo, Josepho Serono, Andrea e Gabriele fratelli de Marcellini, Lodovico e Giulio Cesare fratelli de Pessina, li quali con molti seguaci loro, continuamente di notte et giorno non fanno altra professione che camminare in quadriglia armati d’armi prohibite, massimamente archibugi da ruota, scalar le case, usar violenza, assaltar hora questo hora questo altro, dandogli ferite

La monaca di Monza, Mazzucchelli, Dall’Oglio, 1963.

Quel che qui mi incuriosisce è l’archibugio da ruota, di cui mi occupai tempo addietro.

Durante il XVI secolo, le armi da fuoco subirono un notevole sviluppo tecnologico. Le grandi battaglie di inizio secolo (Marignano 1515, Pavia 1525) mostrarono al mondo la potenza della polvere da sparo e il suo indubbio prevalere sopra la forza d’urto della fanteria e della blasonata cavalleria. Riflesso di tal nuovo modo di combattere manifestò anche nel mondo della letteratura: Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso (edizioni del 1516 e del 1532) condannò, senza mezzi termini, l’uso dell’archibugio:

E così, poi che fuor de la marea

nel più profondo mar si vide uscito,

sì che segno lontan non si vedea

del destro più né del sinistro lito;

lo tolse, e disse: «Acciò più non istea

mai cavallier per te d’esser ardito,

né quanto il buono val, mai più si vanti

il rio per te valer, qui giù rimanti.

O maladetto, o abominoso ordigno,

che fabricato nel tartareo fondo

fosti per man di Belzebù maligno

che ruinar per te disegnò il mondo,

all’inferno, onde uscisti, ti rasigno.»

Così dicendo, lo gittò in profondo.

Il vento intanto le gonfiate vele

spinge alla via de l’Isola Crudele.

(Canto IX, versi 90-91).

Il vecchio archibugio a miccia, pesante, difficile da manovrare e impreciso, andò lentamente in pensione pur con molte resistenze (soprattutto di carattere economico). Il sistema di carico di quest’arma era infatti complesso: aveva uno scodellino esterno in cui si poneva polvere da sparo a sua volta collegata alla carica principale, sita all’interno della camera di scoppio. La polvere era incendiata con una miccia a lenta combustione; miccia bloccata dalla cosiddetta serpentina, una leva che si sganciava al premere del grilletto. La miccia accesa, portata a contatto con la polvere nello scodellino, produceva lo scoppio. Diversi erano, tuttavia, i problemi d’impiego: bisognava accendere la miccia con anticipo (e non c’erano i fiammiferi a supportare l’operazione), tenerla viva, spostarla al consumo nella serpentina, ed era impossibile sparare sotto la pioggia. Questa, infatti, avrebbe spento la miccia e inumidita la polvere. Un indubbio progresso, rappresentò il perfezionamento del meccanismo a ruota: un meccanismo, tuttavia, costoso, apparso agli albori del secolo in questione. Allo scodellino contente la polvere di innesco si era collegata una ruota d’acciaio zigrinata imperniata su una molla. Di fronte allo scodellino era posizionato un cane, ossia un piccolo braccio di metallo munito di ganasce, in cui era fissato un pezzo di pirite. Caricata la ruota con una chiave e tenuta in tensione dalla molla, alla pressione del grilletto questa era rilasciata e il suo sfregamento contro la pirite innescava uno scintillio che, incendiando la polvere, dava fuoco alla carica.

L’arma in questione fu oggetto di severi provvedimenti da parte del legislatore milanese (simili divieti erano comuni in altri stati dell’Italia preunitaria). Ci soffermiamo, in particolare, sopra una grida del 1556, che qui si presenta di seguito in alcune sue parti e reperibile sul portale dell’Archivio di Stato di Milano (si veda sotto). Il 10 giugno 1556, l’Illustrissimo et Reverendissimo Signore il Signore Christoforo Madrucio, Cardinale, Vescovo, et Principe di Trento et Brissinono, Governatore et luocotenente generale di sua Regia Maestà nel Stato di Milano etc., riprendendo grida precedenti poco rispettate (ricordate cosa diceva l’avvocato Azzeccagarbugli a Renzo nei Promessi Sposi?) tentò, come i suoi predecessori e come chi gli succedette, di riportare ordine in materia.

“Sua Signoria Illustrissima et Reverendissima ordina et comanda che chi portarà tali archibuggi o chi farà portar da servitori o altri in alcun loco del Stato, etiam per campagna, dopo la publicatione della presente Crida, incorrano nella pena de tratti tre di corda et scuti ducento d’oro applicandi alla Regia Ducal Camera ipso iure, intendendo etiam de mercanti et forestieri nel modo di sopra specificato, et di più vuol che tutti quelli [che] si troverano in compagnia de tali contrafatienti, incorrerà nella medema pena ipso facto, non altrimenti come se ciascun di loro l’havessero portato, salvo se in termine de duoi giorni prossimi lo notifichi al giusdicente di la città più prossima, in qual caso restarà escusato. Item sua Signoria Illustrissima et Reverendissima comanda che se alcuno portarà alcuno archibuggi o ruota sola a qualche maestro per acconciarla, se subito esso maestro non retenerà et notificarà tal cosa al iusdicente et offitiale del loco dove occorrerà questo, cascarà nella pena soprascritta, intendendo sua Signoria Illustrissima et Reverendissima che le presenti Crida et prohibitione s’osservino anchora per li soldati da cavallo del essercito di Sua Maestà nelle città et terre del Stato; a quali solamente sia permesso portare per adesso simili archibuggi di ruota per viaggio con obligo, subito che sarano gionti alle porte della città et terre del prefato Stato, lassarli alli guardiani di dette porte; et facendo altrimenti si intendano esser incorsi nella pena soprascritta, né s’ametterà escusatione alcuna etiam che non li fossero dentro balotte, polvere et per conseguente tal archibuggio non potesse nocere. Item sua Signoria Illustrissima et Reverendissima ordina et comanda che dopo la prima volta quelli contrafarano a la presente Crida, caschino in pena di la vita et confiscatione de beni come s’havessero commesso omicidio d’animo deliberato et non altrimenti; et perché alle volte non si trova chi voglia notificar tali contrafacienti senza premio, sua Signoria Illustrissima et Reverendissima vuole et declara chi accusarà tali inobedienti sarà tenuto secreto, et guadagnarà scuti cinquanta de li beni del contraffacente, o la terza parte d’essi beni, fiando in caso di confiscatione come di sopra, mentre però che per tal notificatione si venghi in cognizione di la verità, diclarando etiam et nunc, che per tal delitto si procederà etiam ex officio, et per inquisitione e precetti penali, ac etiam convisti et confessi criminis, né s’ametterà diffensione della personal constitutione per qualunque offitial del Stato, così mediato quanto immediato, et per venire alla condemnatione si crederà al denuntiator o accusatore con un testimonio digno di fede”.

Ovviamente, esistevano eccezioni. In gride successive si apprende che esistevano licenze (soprattutto per i militari) per portare simili armi; licenze che periodicamente venivano puntualmente ritirate a ogni grida successiva, dimostrando, nonostante le intimazioni delle autorità, la diffusione di quest’arma proibita.

Il breve studio è stato curato da chi scrive per gli Amici del castello Crivelli.

BIBLIOGRAFIA

– Prohibitione di portar li archibuggi di ruota

Grida sul divieto di girare armati di archibugi e sulle pene relative

1556 giugno 10, Milano, Archivio di Stato di Milano, Miscellanea storica

<http://www.archiviodistatomilano.beniculturali.it/getFile.p…>

– Marcello Guazzerotti, Armi da fuoco. Evoluzione ed uso venatorio

<https://www.academia.edu/…/ARMI_DA_FUOCO_EVOLUZIONE_ED_USO_…>

– Voce archibugio su wikipedia <https://it.wikipedia.org/wiki/Archibugio>

Carlo Borromeo e il folletto di Monza


La fonte principale del seguente passo è la Storia Ecclesiastica del Ripamonti, ripreso dal Mazzucchelli ne La monaca di Monza (Dall’Oglio, 1963). Il contesto è la scabrosa vicenda di suor Virginia Maria al secolo Marianna de Leyva ossia la Gertrude di manzoniana memoria. Manzoni, è noto, non inventò nulla per il suo affresco storico, anche se la realtà nel caso specifico, fu ben più terribile di quanto si apprenda ne “I Promessi sposi”. Così si presentava il convento di Santa Margherita prima dell’avvento della sciagurata suora.

Un folletto burlone si divertiva a far disperare, ora ridendo smascellato, ora levando di sopra il fuoco le vivande, ora scomparendo e rubando i veli alle monache; quando erano a letto le ragazze or rotolandole or avvolgendone il capo tra le corti, e mentre lavoravano le suore rubandone gli aghi e la spola, e ve n’era alcuna che il folletto pareva inseguire più ostinato delle altre. Ma il Cardinale liberò il convento da quel diavolezzo con il benedirlo.

Lo svolgersi del processo a carico di suor Virginia Maria porta alla luce un via vai non indifferente all’interno del monastero stesso. Ci permette, perciò, di dubitare del dispettoso folletto, pensando piuttosto che…

Nell’immagine, la copertina del saggio di Mazzucchelli sopra citato.

Quell’archibugiata del 26 ottobre 1569


Il drammatico tentativo di assassinare Carlo Borromeo (26 ottobre 1569) e il miracolo che arrestò il colpo salvandogli la vita, suscitarono tale scalpore che subito dopo, quasi fosse un libro di estrema attualità, fu pubblicato la “Relatione de tutto il successo occorso nell’archibugiata tirata all’illustrissimo Cardinale Borromeo … et della conspiratione d’alcuni preuosti humiliati contra sua persona” uscito dai torchi pochi mesi più tardi.

La mia lettura intorno alla vicenda, sopra citata, è stata invece la “Storia della archibugiata tirata al Cardinale Carlo Borromeo, San Carlo (in Milano la sera del 26 ottobre 1569)” di Luigi Anfosso (1913) che ha ripreso quanto scritto nella relazione citata precedentemente, arricchendola di un apparato documentale proveniente dagli archivi.

Sono rimasto stupito di come i congiurati potessero pensare che il loro sgangherato piano potesse giungere in porto tranquillamente. Il mio punto di vista è ovviamente lontano dal modo d’intendere la realtà di allora, tuttavia una certa incredulità sembra trasparire anche tra coloro che furono chiamati ad inquisire. In pratica, il pianificato omicidio non fu mai un segreto. Sebbene cadesse nelle orecchie di un nutrito numero di persone, tale idea non godette di particolare credibilità, come se fosse discorso d’osteria. Eppure…

Una chicca per gli appassionati del XVI secolo e per coloro che vanno cercando tra i libri mirabilia.

Nell’immagine: Fiammenghino: L’attentato a San Carlo (“Quadrone” del Duomo).

Repubblicani, Sforzeschi e… pazienti lettori!


Repubblicani e Sforzeschi è il romanzo dell’Aurea Repubblica Ambrosiana (1447-1450) e della contemporanea ascesa militare e politica di Francesco Sforza al ducato di Milano. È un romanzo che possiamo tranquillamente considerare un saggio storico con interpolazioni di fantasia. Carlo Belgioioso proseguì il filone narrativo nato dall’entusiasmo suscitato da “I promessi sposi”. Siamo comunque molto lontani dall’equilibrio strutturale raggiunto da Manzoni e dal bel scrivere frutto della lunga “sciacquatura in Arno”. Ha tutti i difetti del romanzo storico di “maniera” dell’Ottocento: periodo elaborato (definiamolo così), inquadramento del periodo ampio e didascalico; lessico che riflette la provenienza geografica dell’autore. Tutti elementi, insomma, che piacciono all’appassionato della letteratura ottocentesca.

È infine un eccellente compendio storico che ben riassume le drammatiche vicende della città meneghina e del suo contado alla morte di Filippo Maria Visconti. Non manca ovviamente la travagliata storia d’amore che s’intreccia con le tumultuose vicende cittadine. In quegli anni, salire in vetta e cadere nella polvere era questione di piazza e la piazza era assi mobile “qual piuma al vento”. Ciò ben lo sapevano i protagonisti della vicenda egualmente vicini al trionfo quanto alla tragedia personale.

Con pazienza, si giunge al termine della lettura, compiendo una piccola impresa.

Bindoni:Manzoni=x:Eco


Giuseppe Bindoni potrebbe essere definito lo stolker postumo del Manzoni. Non amo l’uso di termini inglesi, ma in italiano espressioni come “camminare con circospezione”, “camminare furtivamente”, “colui che cammina in modo furtivo” o, più affine al nostro caso, “cacciatore in agguato” non renderebbero l’idea. Fu un vero appassionato che spulciò pagina per pagina, periodo per periodo, parola per parola quella grande opera intitolata “I promessi sposi”. Attraverso le lettere dell’autore stesso, con la testimonianza dei conoscenti del grande scrittore, con l’analisi delle incisioni della magnifica edizione del 1840, ricostruì, nella sua “Topografia del romanzo i Promessi Sposi”, le fonti del celeberrimo racconto, i luoghi e financo la lunghezza del passo del Manzoni che sostanzialmente, conclude Bindoni, storicamente e geograficamente non inventò nulla. Neanche lo sciabordio delle acque dell’Adda, sotto il ponte di Lecco, la notte della fuga. Lo studio è stato rieditato, in tempi assai recenti, con il titolo di “A spasso con i promessi sposi” per i tipi della Gemini Grafica Editrice.

Un’analisi tale meriterebbe, a parere di chi scrive, anche il romanzo italiano più celebrato del XX secolo: “Il nome della rosa” di Umberto Eco. I sapienti dialoghi, la topografia, le note storiche, le accumulazioni, i cataloghi della biblioteca stessa, luogo principe della vicenda, vorrebbero un’attenzione pari a quella che Bindoni dedicò allo scrittore milanese. L’impressione è che anche Eco ricostruì un medioevo eccezionalmente reale per eventi e luoghi, ricalcando le fonti a sua disposizione (si veda qui un esempio), salvo sciacquare il testo con meno cura: rimangono a testimonianza di ciò alcune imprecisioni che furono trovate nelle prime edizioni.

Da qui nasce la proporzione proposta nel titolo: si troverà mai una Bindoni per Eco?

Fra Dolcino e il Rave di Viterbo


Può esserci similitudine tra Fra Dolcino, e il movimento della Parete Calva, e il Rave di Viterbo?

Può sembrare audace cercare punti in comune tra un movimento religioso, che sviluppò la sua esistenza a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, e il Rave in corso nella provincia di Viterbo. Vediamo, tuttavia, quali possono essere le somiglianze.

1 La sorpresa: in entrambi i casi nessuno s’aspettava nulla.

2 Reclutamento. Fra Dolcino predicava e si muoveva di borgo in borgo con una massa di seguaci. Comunicava insomma al di fuori dei canali tradizionali. I giovani del Rave hanno usato un sistema simile: messaggi ai propri followers.

3 La voglia di vivere un’esperienza in comunità, al di là delle differenze dei messaggi veicolati.

4 Degenerazione della vita comunitaria. Di Fra Dolcino e degli apostolici, forse complice la demonizzazione del movimento dovuta all’inquisizione, si è scritto di tutto: costumi sfrenati, ruberie, orge e omicidi. A Viterbo, leggendo i giornali, si è andati ben oltre il sex, drugs and rock’n roll.

5 L’ostilità nei confronti di tali assembramenti. Vescovi, feudatari e popolo un tempo; sindaci, imprenditori e cittadini oggi.

6 L’assedio: i dolciniani e i “Ravisti” sono stati circondati. Una crociata nel 1306, le forze di polizia nel 2021. Non si esce e non si entra in attesa del redde rationem.

Fin qui, ciò che mi pare di scorgere in comune. E la fine? Differente: Processati e sterminati gli Apostolici, allontanati con pazienza (troppa) i frequentatori del rave.

Come guarire dal mal d’amore


Si può guarire dal mal d’amore?

In questi giorni sto rileggendo “Il nome della rosa” di Umberto Eco; una nuova lettura per cogliere le mirabilia in esso contenute. L’autore stesso scriveva, nelle sue postille all’opera, di aver avuto sottomano numerose fonti: libri, appunti e fotocopie: vi attingeva in alcune occasioni con metodo, in altre senza un ordine preciso per ricavarvi dialoghi o descrizioni. Una di queste promette soluzioni meravigliose.

Di notabile, nel romanzo, vi sono i turbamenti dell’innamorato Adso che, nella biblioteca proibita, vi trova dei remedia amoris. Come dunque si rinsavisce dall’innamoramento? Avicenna docet.

  1. “Unire gli amanti in matrimonio”. Qui mi piace sottolineare l’Ahimè, con cui il narratore (Adso) introduce il periodo: “Ahimè, Avicenna suggeriva, come rimedio…”. Ho come l’impressione di trovarvi dell’ironia piuttosto che la disperazione del protagonista, che essendo monaco non poteva contrarre matrimonio. Quell’ahimè risuona come “matrimonio tomba dell’amore?”. Ciò anche alla luce del secondo e del terzo rimedio.
  2. “Vecchie esperte che passino il tempo a denigrare l’amata”. Questa soluzione è semplice oggi (senza ricorrere alle vecchie) come allora. L’esperienza quotidiana ci insegna che spesso non funziona.
  3. “Congiungere l’amante infelice con molte schiave”, rimedio che non ha necessità di altri commenti.

Basta(va) seguire uno solo di questi metodi e l’innamoramento si sarebbe spento. Facile come bere alla celeberrima fonte dell’odio di Orlando.

Eco, Merchisardo e Alberto il Piccolo


Chi cerca trova!

Il dialogo tra Adso e Salvatore, siamo sempre tra le pagine del “Nome della rosa”, è riassunto, già nel romanzo, in forma indiretta:

Disse che si poteva rendere qualsiasi cavallo, anche la bestia più vecchia e fiacca, altrettanto veloce di Brunello. Occorre mescolare nella sua avena un’erba che si chiama satirion, ben tritata, e poi ungere le cosce con grasso di cervo. Poi si sale sul cavallo e prima di spronarlo gli si volge il muso a levante e gli si pronuncia nell’orecchio, tre volte a voce bassa, le parole “Gaspare, Melchiorre, Merchisardo”. Il cavallo partirà di gran carriera e farà in un’ora il cammino che Brunello farebbe in otto ore. E se gli si fosse appeso al collo i denti di un lupo che il cavallo stesso, correndo, avesse ucciso, la bestia non sentirebbe neppure la fatica.

Letto il passo, la domanda è stata: perché Merchisardo? Se fossero i Magi, non dovrebbe esserci Baldassarre? O in alternativa il nome del misterioso quarto magio? E se non fossero i Magi, chi è Merchisardo? A parlare è Salvatore, un personaggio alquanto particolare, ben conosciuto dal lettore di Eco e dallo spettatore del cinema. Salvatore parla una lingua sua particolare e si esprime con il linguaggio del mondo: potrebbe essere quindi una invenzione dell’autore? Invece, no!

Secret pour faire faire à un Cheval plus de chemin en une heure qu’un autre n’en pourra faire en huit heures.
Vous mêlerez dans l’avoine du Cheval une poignée de l’herbe apellée Satirion, que vous hacherez bien menue, vous oindrez le haut de ses quatre jambes en-dessous du ventre avec de la graisse de Cerf, & quand vous serez monté dessus prêt à partir, vous lui tournerez la tête du côté du Soleil levant, & vous panchant sur son oreille gauche, vous prononcerez trois fois à voix basse les paroles suivantes, & vous partirez aussi-tôt: Gaspar, Melchior, Merchisard. J’ajoute à ceci, que si vous suspendez au col du Cheval les grosses dents d’un Loup qui aura été tué en courant, le Cheval ne sera pas fatigué de la course.

Il passo è tratto da: Secrets merveilleux de la Magie Naturelle et Cabalistique du Petit Albert Traduits exactement sur l’Original Latin, intitulé: Alberti Parvi Lucii, Libellus de mirabilibus Naturae arcanis, pubblicato nel 1706.

L’esistenza del Piccolo Alberto è comunque un mistero (qui alcune note in lingua inglese).

Consoliamoci: ci rimane una certezza: Merchisardo non è un’invenzione di Eco.

Protobiante, chi è costui?


La parola in questione l’ho letta in una delle tante accumulazioni (io le chiamo più affettuosamente “lista della spesa”) che Umberto Eco inserisce nel testo de “Il nome della rosa“.

Il passo incriminato è il seguente:

Dal racconto che mi fece me lo vidi associato a quelle bande di vaganti che poi, negli anni che seguirono, sempre più vidi aggirarsi per l’Europa: falsi monaci, ciarlatani, giuntatori, arcatori, pezzenti e straccioni, lebbrosi e storpiati, ambulanti, girovaghi, cantastorie, chierici senza patria, studenti itineranti, bari, giocolieri, mercenari invalidi, giudei erranti, scampati dagli infedeli con lo spirito distrutto, folli, fuggitivi colpiti da bando, malfattori con le orecchie mozzate, sodomiti, e tra loro artigiani ambulanti, tessitori, calderai, seggiolai, arrotini, impagliatori, muratori, e ancora manigoldi di ogni risma, bari, birboni, baroni, bricconi, gaglioffi, guidoni, trucconi, calcanti, protobianti, paltonieri, e canonici e preti simoniaci e barattieri, e gente che viveva ormai sulla credulità altrui, falsari di bolle e sigilli papali, venditori di indulgenze, falsi paralitici che si sdraiavano alle porte delle chiese, vaganti in fuga dai conventi, venditori di reliquie, perdonatori, indovini e chiromanti, negromanti, guaritori, falsi questuanti, e fornicatori di ogni risma, corruttori di monache e di fanciulle con inganni e violenze, simulatori di idropisia, epilessia, emorroidi, gotta e piaghe, nonché follia melanconica.

Protobiante, chi è costui?

Il vocabolario, compreso quello dell’Accademia della Crusca, tace.

La risposta l’ho trovata grazie a “L’espansione dell’ordine di S. Spririto in Umbria e nelle Marche” di Mario Sensi. Nello studio è scritto:

Le collette avevano bisogno di pesone che coordinassero su vasta scala la raccolta e di operai che andassero di porta in porta per raccogliere le elemosine manuali. I primi detti protobiante, ricevevano l’appalto della questa di un territorio geograficamente definito della balia…”

Da Milano a Damasco


Vi è il gusto del viaggio lento, come altrimenti non poteva essere: il treno, la nave, la carovana. Tappa dopo tappa, Stoppani ci conduce alla scoperta di un mondo perduto, in un’epoca dove occidente e oriente dialogavano secondo il costume dell’epoca, caratterizzato da un imperialismo mal celato. Vi ho trovato le atmosfere da mille e una notte, mediate da una inattesa e importante impronta religiosa (occidentale). Sorprende la tolleranza con cui culture diverse convivevano, traendo vantaggi vicendevoli. L’interesse per la geologia è preponderante finanche eccessivo, ma le note di colore, la descrizione del tessuto urbano, la meraviglia per costumi inusuali bilanciano la narrazione del lungo viaggio.

Per chi volesse recuperare questa interessante lettura Una più recente edizione del 1989 è facilmente reperibile nel mercato del libro usato.

Antonio Stoppani, (Lecco 1824 – Milano 1891) fu scienziato e scrittore italiano. Fu autore di opere di geologia (Corso di geologia in tre volumi), saggi e prose (I primi anni di Alessandro Manzoni, Trovanti, Gli intransigenti, Exameron e un volume di versi (Asteroidi). L’opera più celebre, già ai suoi tempi molto popolare, resta Il bel paese (1875). Partecipò alle cinque giornate di Milano e alla prima guerra d’indipendenza. Fu ordinato sacerdote nel 1848 e si dedicò all’insegnamento. Per le sue idee liberali subì le persecuzioni del governo austriaco; insegnò a Pavia, a Firenze e a Milano, dove diresse il museo civico di scienze naturali e compì importanti ricerche sul territorio lombardo.